La costruzione di una scala interna che collega due piani di un immobile originariamente separati costituisce reato se tale intervento non è previsto nella SCIA relativa ai lavori di accorpamento delle due preesistenti unità immobiliari.

FATTISPECIE
La proprietaria di un immobile sito in San Gimignano, presentava una s.c.i.a. in forza della quale eseguiva lavori di fusione di due preesistenti unità immobiliari; nell'esecuzione di tali lavori, veniva altresì realizzata, senza che fosse prevista nella s.c.i.a., una scala interna che collegava il piano terra al primo piano dell'immobile, composta da 15 gradini, della larghezza di mt. 0,80.

I profili di illegittimità dell'opera erano stati individuati sia nel fatto che la scala interna non era contemplata nella s.c.i.a., sia nella circostanza che la larghezza dei gradini della scala era inferiore di 20 cm. di quella minima di 1 mt.

PRINCIPI DI DIRITTO
La scala in esame era stata eseguita nell'ambito di lavori di ristrutturazione volti alla fusione di due unità immobiliari private di proprietà dell'imputata, senza che un tale intervento fosse in qualche modo finalizzato all'eliminazione di barriere architettoniche.

In proposito, la Sent. C. Cass. pen. 10/10/2019, n. 41598 ha affermato che la voce n. 30 del Glossario delle opere realizzabili in regime di attività di edilizia libera (approvato con il D. Min. Infrastrutture e Trasp. 02/03/2018) concerne l'eliminazione delle barriere architettoniche, essendo cioè consentita, tra l'altro, l'installazione, la riparazione, la sostituzione e il rinnovamento di rampe che non comportino la realizzazione di ascensori esterni o di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio. Non è riferibile a tale voce una scala eseguita nell'ambito di lavori di ristrutturazione volti alla fusione di due unità immobiliari private, senza che un tale intervento fosse in qualche modo finalizzato all'eliminazione di barriere architettoniche.

Ne discende l’esclusione della configurabilità dell’opera tra quelle realizzabili in regime di attività di edilizia libera e la coerente conclusione della sentenza impugnata circa la configurabiilità astratta della fattispecie ex art. 44, comma 2-bis, del D.P.R. 380/2001, essendo stata realizzata un'opera non prevista nel titolo abilitativo.

Inoltre, stante la violazione dello strumento normativo comunale, il mancato rispetto della larghezza minima dei gradini è stato ritenuto idoneo a integrare la contravvenzione di cui all'art. 44 comma 1 lett. a) del D.P.R. 380/2001.

Tuttavia, pur avendo ribadito la configurabilità del reato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, e ciò anche in ragione della natura colposa della fattispecie, il giudice è pervenuto all'assoluzione dell'imputata, qualificando la sua condotta come occasionale e particolarmente tenue, in considerazione della tipologia e della modesta entità dell'opera in questione, eseguita peraltro nel contesto di lavori comunque previamente assentiti nella loro portata principale; per cui, pur potendo l'opera, stante la riscontrata violazione dimensionale, arrecare potenzialmente un pregiudizio alla tutela del territorio determinando situazioni di pericolo, tuttavia l'offesa in concreto è stata ritenuta qualificabile in termini di particolare tenuità, e ciò anche alla luce del fatto che si trattava di una scala interna di modesto impatto, inidonea peraltro a incidere su altrui proprietà.

 

 

Fonte: Bollettino Online di Legislazione Tecnica
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La Corte di Cassazione, con la sentenza del 15/10/2019, n. 26041, si pronuncia in tema di divisione delle parti comuni dell'edificio con particolare riferimento ad un'area condominiale destinata al parcheggio.

Come è noto l’art. 1119, Cod. civ., prevede che le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino “e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”. Queste ultime parole sono state aggiunte dall’art. 4 della L. 220/2012 di riforma del condominio.

Sulla materia si è pronunciata la Corte di Cassazione in una fattispecie in cui un condomino contestava la ripartizione - disposta dal Tribunale - di un’area condominiale adibita a parcheggio nonostante avesse manifestato il proprio dissenso. In particolare il ricorrente sosteneva che la modifica dell’art. 1119, Cod. civ. disposta dalla L. 220/2012 condizionasse la divisibilità delle parti comuni al requisito del consenso di tutti i condomini anche nel caso di divisione disposta dal giudice.

La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso, ha premesso che la divisione delle cose comuni è materia sottratta alle competenze riconosciute all'assemblea dall'art. 1135, Cod. civ., per cui non può essere deliberata dalla volontà collettiva dei partecipanti in assemblea, ma che peraltro non si può escludere che con il consenso unanime dei condomini, raccolto non in una mera delibera, ma in una scrittura privata o atto pubblico ex art. 1350, Cod. civ., si possa procedere alla divisione.

Ciò posto la Corte ha si è soffermata poi sulla portata della modifica di cui alla L. 220/2012 distinguendo il caso di divisione volontaria e il caso di divisione giudiziaria e ritenendo che il requisito aggiunto dalla L. 220/2012 dell’unanimità dei consensi si riferisce solo alla divisione volontaria, avendo il legislatore utilizzato la congiunzione “e” in una "funzione essenzialmente disgiuntiva".

In conclusione i giudici hanno affermato che l'art. 1119, Cod. civ. come modificato dall'art. 4 della L. 220/2012, va interpretato nel senso che le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che, per la divisione giudiziaria, la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e, per la divisione volontaria, non si sia concluso un contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico (e quindi non con delibera assembleare), il consenso di tutti i partecipanti al condominio. Quest'ultimo requisito (inserito dal citato art. 4, L. 220/2012) non è richiesto per la divisione giudiziaria.

Ne consegue, da un lato, che la divisione giudiziaria può essere effettuata anche a prescindere dal consenso unanime e, d’altro lato, che la divisione volontaria risulterebbe ammessa - con il consenso di tutti i condomini espresso in una scrittura privata o in un atto pubblico - anche nel caso in cui l’uso delle cose comuni risultasse “più incomodo”.

Nel caso di specie, trattandosi di divisione giudiziaria, non era necessario il consenso di tutti i partecipanti al condominio e pertanto il ricorso è stato rigettato.

 

 

Fonte: Bollettino Online di Legislazione Tecnica
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Entra in vigore dal 01/11/2019 il D.M. 18/10/2019, che apporta profonde modifiche al D.M. 03/08/2015, il Codice di prevenzione incendi (c.d. “Regola Tecnica Orizzontale”, RTO).

Con il D.M. 18/10/2019 prosegue il percorso di aggiornamento delle vigenti disposizioni tecniche in materia di prevenzione incendi sulla base dei più aggiornati standard internazionali, tramite la sostituzione integrale di alcune sezioni dell’Allegato I al Codice, contenuto nel D.M. 03/08/2015 (del testo precedente rimangono in pratica solamente le RTV aggiunte successivamente alla prima stesura (V.4 - Uffici; V.5 - Attività ricettive turistico - alberghiere; V.6 - Attività di autorimessa; V.7 - Attività scolastiche; V.8 - Attività commerciali).

Si ricorda che dal 20/10/2019 è entrato in vigore anche il D.M. 12/04/2019, ha previsto l'eliminazione del c.d. “doppio binario” per la progettazione delle attività soggette alle visite e ai controlli di prevenzione incendi, rendendo pertanto la normativa “prestazionale” di cui al Codice di prevenzione incendi da facoltativa diventa obbligatoria per le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi ma non normate.
Si veda in proposito Progettazione antincendio, abolizione doppio binario: Circolare dei VV.F. con tabella riepilogativa, con i chiarimenti recati dalla Circolare 15/10/2019, n. 15406.



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Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno esaminato il caso in cui due o più comproprietari immobiliari desiderino dividersi le rispettive quote di un immobile abusivo, anche quando tali quote siano loro derivate da successione ereditaria.

Cass. S.U. 07/10/2019, n. 25021, ha esaminato l’interessante e molto dibattuta questione di diritto riguardante la validità degli atti di divisione di una comunione (o comproprietà) immobiliare concernente un immobile abusivo, nel caso ordinario e nel caso in cui la comunione si sia formata in seguito a una successione ereditaria.

NORMATIVA SULLA NULLITÀ DEGLI ATTI CONCERNENTI IMMOBILI ABUSIVI - La normativa in materia è contenuta:
1) nell’art. 46 del D.P.R. 380/2001 (che a sua volta riproduce quasi fedelmente il pregresso art. 17 della L. 47/1985), il quale al comma 1 dispone che gli atti tra vivi aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali sono nulli, e non possono essere stipulati, se non risultino per dichiarazione del venditore gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria;
2) nell’art. 40 della L. 47/1985, il quale al comma 2 dispone che gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali sono nulli, e non possono essere stipulati, se non risultino per dichiarazione del venditore gli estremi della concessione o della concessione in sanatoria, o se non venga allegata copia della domanda di condono edilizio con gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione (fanno eccezione gli atti relativi a opere iniziate prima del 02/09/1967, per le quali in luogo della suddetta documentazione può essere prodotta una autodichiarazione).
Entrambe le disposizioni sopra citate escludono dal proprio campo di applicazione gli atti aventi a oggetto diritti reali di garanzia (es. ipoteca) o aventi a oggetto servitù.

NULLITÀ PARZIALE (DIFFORMITÀ DELL’IMMOBILE DAL TITOLO EDILIZIO) - In primo luogo occorre ricordare le acquisizioni giurisprudenziali in base alle quali la nullità sancita dall’art. 46 del D.P.R. 380/2001 e dall’art. 40 della L. 47/1985 è volta a sanzionare unicamente la mancata inclusione negli atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile.
La nullità non si applica pertanto agli atti (che siano di compravendita, trasferimento, costituzione o scioglimento di diritti reali) in cui vi sia un titolo edilizio - esistente realmente e riferibile all’immobile in atto - ma l’immobile sia stato realizzato in difformità dal titolo stesso (c.d. “nullità parziale”, si veda in proposito Cass. S.U., 22/03/2019, n. 8230; vedi anche Compravendita di immobile abusivo: condizioni di validità).

NULLITÀ DELL’ATTO DI SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE - Venendo alle conclusioni raggiunte da Cass. S.U. 07/10/2019, n. 25021, la pronuncia ha ritenuto che:
1) anche l’art. 40 della L. 47/1985, seppure non menzioni espressamente gli atti di scioglimento della comunione come fa invece l’art. 46 del D.P.R. 380/2001, si applica a tali atti, e pertanto la sanzione della nullità colpisce anche gli atti stipulati prima dell’entrata in vigore del TU edilizia, in vigenza della L. 47/1985.
2) la nullità in questione concernente gli atti di scioglimento della comunione è applicabile tanto agli atti concernenti la comunione ordinaria che a quelli concernenti la comunione formatasi a seguito di successione ereditaria (c.d. “comunione ereditaria”), dal momento che anche questi possono essere assimilati all’interno della categoria degli atti “inter vivos” contemplati da entrambe le norme in discorso. - Deve in conseguenza considerarsi superata la giurisprudenza secondo cui la nullità prevista dall'art. 17 della L. 47/1985, ora trasposto nell'art. 46 del D.P.R. 380/2001, per gli atti aventi ad oggetto immobili privi di concessione edificatoria (compresi quelli di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”) non si applichi alla divisione ereditaria quale atto conclusivo della vicenda successoria (ad esempio: Cass. 28/11/2001, n. 15133).

Conseguenza: il giudice non può disporre la divisione di immobile abusivo. Come diretta conseguenza dei principi sopra illustrati consegue che il giudice non può disporre lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria che sia) di un fabbricato o porzione di fabbricato mancante della documentazione che attesti la regolarità edilizia. Pertanto, qualora la divisione sia stata comunque disposta, la nullità può essere fatta rilevare d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio (si vedano anche in proposito: Cass. 24/06/2011, n. 13969; Cass. 11/11/2009, n. 23825).

L’indivisibilità non colpisce il resto dell’asse ereditario. Cass. S.U. 07/10/2019, n. 25021, ha inoltre ritenuto che la nullità in discussione non colpisca gli altri beni costituenti l’asse ereditario. Pertanto, anche se nell’asse ereditario sono presenti immobili abusivi, ciascun coerede ha diritto di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti.

L’indivisibilità non colpisce gli atti nell’ambito di esproprio o procedura concorsuale. Infine, Cass. S.U. 07/10/2019, n. 25021, ha ritenuto che sia l’art. 46 del D.P.R. 380/2001 che l’art. 40 della L. 47/1985 non colpiscano la divisione dell'edificio abusivo, di cui il debitore sia comproprietario pro quota, da disporsi nell'ambito del processo di espropriazione individuale o del procedimento fallimentare o di altra procedura concorsuale.

 

 

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L’Agenzia delle entrate chiarisce che non è possibile usufruire delle agevolazioni prima casa in caso di possesso di un altro immobile, neppure se quest’ultimo è concesso in locazione.

Con l’Interpello 10/09/2019, n. 378, l’amministrazione finanziaria ha esaminato la possibilità o meno di usufruire delle agevolazioni c.d. “prima casa” (Guida alla "Cedolare secca" sulle locazioni) in caso di possidenza di altro immobile situato nello stesso Comune, ma concesso in locazione.

Tra i vari requisiti per usufruire delle agevolazioni è previsto che il soggetto acquirente dichiari:
1) di non essere titolare (esclusivo o in comunione con il coniuge) di altra casa di abitazione nel territorio dello stesso comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
2) di non essere titolare (neanche pro quota) di altro immobile acquistato con le agevolazioni “prima casa” su tutto il territorio nazionale (si veda peraltro quanto verrà illustrato più avanti nel paragrafo dedicato alle successioni o donazioni a proposito della possibile reiterazione delle agevolazioni in caso di successione o donazione agevolata seguita da acquisto a titolo oneroso).

Riguardo al punto 1), la giurisprudenza ritiene che ricorra il requisito per l’applicazione del beneficio anche nell’ipotesi di disponibilità di un alloggio il quale, tuttavia, non sia concretamente idoneo - ad esempio perché inagibile oppure perché oggettivamente inidoneo per dimensioni e caratteristiche complessive - a sopperire ai bisogni abitativi del contribuente e della famiglia.
L’apprezzamento di tali caratteristiche sarà eventualmente rimesso alla discrezionale valutazione del Giudice (Cass. 08/01/2010, n. 100; Cass. 11564/2006; Cass. 17938/2003; Cass. 10935/2003; Cass. 6492/2003; Cass. 2418/2003).

Tuttavia, in base all’interpretazione dell’Agenzia delle entrate, non può attribuirsi rilevanza ad un concetto di “inidoneità” collegato ad una indisponibilità “giuridica” di carattere meramente temporaneo, e comunque dipendente dalla volontà del soggetto, come ad esempio nel caso di immobile indisponibile perché dato in locazione.
Una diversa interpretazione, infatti, si ritiene che non trovi riscontro nel disposto normativo secondo cui l’acquirente deve dichiarare in atto “di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare”.

Alle medesime conclusioni l'Agenzia era già pervenuta con Risoluzione 20/08/2010, n. 86/E e Risoluzione 01/08/2017, n. 107/E.

Si segnala peraltro che in senso contrario a tale orientamento si è espressa Cass. 27/07/2018, n. 19989 (consultabile in allegato), nella quale si afferma che “l’agevolazione spetta anche all’acquirente che sia titolare del diritto di proprietà su altra casa situata nello stesso Comune in cui si trova l’immobile che viene acquistato allorché tale casa sia oggetto di un rapporto locativo regolarmente registrato e non maliziosamente preordinato a creare lo stato di indisponibilità della stessa”.

 

 

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Le società "in house providing" possono usufruire delle detrazioni per interventi di ristrutturazione edilizia, riqualificazione energetica (ecobonus) e riduzione del rischio sismico (sismabonus) realizzati esclusivamente su immobili adibiti ad edilizia residenziale pubblica.

Con riferimento alle detrazioni fiscali per gli interventi di ristrutturazione edilizia, riqualificazione energetica (ecobonus) e riduzione del rischio sismico (sismabonus), l'Agenzia delle entrate ha fornito il parere n. 393 del 07/10/2019, con il quale chiarisce che tali detrazioni sono fruibili per interventi realizzati su immobili adibiti ad edilizia residenziale pubblica.

In particolare, l'applicazione dell'art. 14 del D.L. 63/2013, comma 2-septies, e dell'art. 16 del D.L. 63/2013, comma 1-sexies.1, presuppone l'esistenza di due requisiti
- soggettivo: bisogna essere una società che risponde ai requisiti della legislazione europea in materia di in house providing, che sia costituita e operante alla data del 31/12/2013;
- oggettivo: deve trattarsi di interventi di ristrutturazione edilizia e di efficienza energetica, su immobili di proprietà ovvero gestiti per conto dei comuni, adibiti ad edilizia residenziale pubblica.

In proposito si osserva, inoltre, che l' edilizia residenziale sociale (ERS) nasce con una finalità diversa rispetto all'edilizia residenziale pubblica (ERP). Essa risponde, infatti, ad un progetto più ampio volto a garantire benessere abitativo e integrazione sociale, prevedendo che in un unico complesso vi siano oltre agli alloggi popolari che rispondono alle politiche di un ente pubblico e alloggi privati, i servizi necessari al soddisfacimento delle esigenze primarie e, inoltre, che la selezione degli abitanti avvenga in modo da creare una comunità variegata composta da una quota di giovani, single, anziani, coppie, disabili.

Infine, il parere chiarische che la società istante, in relazione agli interventi finalizzati alla riduzione del rischio sismico sugli altri fabbricati locati a terzi, non possa fruire delle detrazioni del cd. sismabonus.

 

 

Fonte: Bollettino di Legislazione Tecnica online
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La Corte di Cassazione fornisce importanti chiarimenti sulle differenze tra gli interventi di restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e nuova costruzione.


FATTISPECIE
Nel caso in esame, Il Tribunale di Agrigento, veniva adito per l'annullamento del decreto con cui era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso immobiliare in relazione ai reati di cui alla lett. c), dell’art. 44, comma 1, del D.P.R. 380/01, art. 181 del D. Leg.vo 22/01/2004, n. 42 e art. 734 del Codice penale, ritenuti integrati attraverso la realizzazione sul predetto complesso, con modifica di destinazione d'uso da residenza ad utilizzo turistico ricettivo, di plurimi interventi edili di nuova costruzione e ristrutturazione ed effettuati in assenza di permesso di costruire ovvero in forza di provvedimenti autorizzativi da considerare illegittimi.

Il Tribunale accoglieva il riesame annullando il decreto, su rilievo dell'intervenuta realizzazione di un legittimo intervento di generale ristrutturazione del complesso, effettuato sulla base di regolari titoli concessori ed autorizzatori.

Avverso il predetto decreto proponeva ricorso il PM poiché il Tribunale, nella parte in cui sembrava sostenere che l'intervento in esame integrava un'attività di restauro conservativo, non avrebbe tenuto conto delle emergenze istruttorie che illustravano l'intervenuta realizzazione di una complessiva attività di trasformazione urbanistico-edilizia del complesso immobiliare in esame, con modifica d'uso, in contrasto con le prescrizioni urbanistiche e di vincolo.

Si trattava in particolare della realizzazione di un ampio parcheggio, previi significativi sbancamenti, terrazzamenti, camminamenti e scalinate, di una fontana e di una piscina, tutti in grado di alterare il paesaggio originario; oltre a nuove costruzioni in corso, destinate a integrare un "museo delle carrozze", un gazebo, un locale "servizio gazebo" ed il corpo denominato "ingresso al Parco". Ancora, la realizzazione in luogo di un preesistente "giardino all'italiana" di una piazza pavimentata priva di essenze arboree con sottostante locale seminterrato destinato, in variante, a "centro benessere" con annessi servizi igienici e tecnici, che integrava un imponente intervento nel cuore del complesso monumentale, ovvero tra il corpo A (residenziale) e il corpo B (amministrazione), qualificabile in termini di nuova costruzione, tale da avere trasformato irreversibilmente un'area destinata a giardino secondo apposito schema planimetrico.

In tale quadro, di non configurabilità di interventi di restauro e risanamento conservativo, si ponevano gli interventi correlati o strumentali a quelli sopra sintetizzati, quali la demolizione dei due magazzini con sostituzione con un'unica struttura a due piani, rivestita con un muro coronato da merlatura, lo svuotamento di fondazioni del corpo amministrazione, per ricavarne camere di albergo, l'innalzamento di un tetto per ricavare un piano da adibire a struttura ricettiva, la creazione di nuove scale e percorsi interni anche sotterranei, lo sventramento della cisterna per creare un bagno turco, le demolizioni e ricostruzioni in genere e il rifacimento di parti dirute; con questi ultimi interventi, peraltro su bene vincolato, non qualificabili, quali "integrazioni architettoniche" imposte per rifare elementi parzialmente o totalmente distrutti, bensì integranti opere di ristrutturazione o nuove costruzioni.

PRINCIPI DI DIRITTO
In proposito, la Sent. C. Cass. pen. 18/09/2019, n. 38611 fornisce importanti chiarimenti con riferimento alle caratteristiche degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, nonché alle differenze tra tali interventi.

Ristrutturazione edilizia “leggera” e “pesante”
Solo gli interventi di ristrutturazione edilizia indicati nella lett. c), dell'art. 10, comma 1, del D.P.R. 380/2001 richiedono il permesso di costruire, essendo sufficiente per gli altri la s.c.i.a. Si tratta, in questo caso, di interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, individuati come quelli che determinano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica. Al contrario, le ristrutturazioni edilizie che comportano integrazioni funzionali e strutturali dell'edificio esistente, ammettendosi limitati incrementi di superficie e di volume, necessitano del permesso di costruire.

Restauro e risanamento conservativo
In materia edilizia, la finalità degli interventi di restauro e risanamento conservativo è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, ma pur sempre nel rispetto dei suoi elementi essenziali “tipologici, formali e strutturali”, il quale impone che non possono essere mutati:
- la “qualificazione tipologica” del manufatto preesistente, cioè i caratteri architettonici e funzionali di esso che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie;
- gli “elementi formali” (disposizione dei volumi, elementi architettonici) che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando l'immagine caratteristica di esso;
- gli “elementi strutturali”, cioè quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.
Da quanto esposto, la giurisprudenza di legittimità ha sempre dedotto il principio della finalità di conservazione come caratteristico degli interventi di recupero e risanamento conservativo, così sottolineando la necessità che sia inalterata la struttura dell'edificio, sia all'esterno che al suo interno.

Manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia
Gli interventi edilizi che alterino anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia, che è pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell'edificio anche per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente: infatti anche in questi casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Differentemente dalla ristrutturazione, gli interventi di restauro e risanamento conservativo non possono modificare in modo particolarmente pregnante l'assetto edilizio preesistente, consentendo soltanto variazioni d'uso “compatibili” con l'edificio conservato.

Ristrutturazione edilizia e nuova costruzione
Mentre gli interventi di restauro e risanamento conservativo non contemplano aumenti di volumetria, essi sono possibili in sede di ristrutturazione; tuttavia le “modifiche volumetriche” previste dall'art. 10 del D.P.R. 380/2001 per le attività di ristrutturazione edilizia devono consistere in diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero in incrementi volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili aumenti di volumetria. Ciò in quanto, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione.

 

 

Fonte: Bollettino di Legislazione Tecnica online
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In tema di difetti dell’opera, l'impegno dell'appaltatore ad eliminare i vizi denunciati dal committente costituisce tacito riconoscimento degli stessi e fonte di una nuova obbligazione, che è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale fissato per l'inadempimento contrattuale.

FATTISPECIE
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Bologna, che aveva rigettato la domanda con la quale si chiedeva la condanna della società appaltatrice al risarcimento dei danni, consistenti nelle somme necessarie per l'eliminazione dei vizi dell'abitazione.

Gli attori esponevano che, dopo un anno dall'acquisto, avevano constatato la presenza di crepe al muro, rotture di piastrelle del pavimento e difettosa chiusura delle porte. La ditta appaltatrice era intervenuta ed aveva eseguito degli interventi per rimuovere i vizi che, tuttavia, si erano ripresentati nel 2004, ma, nonostante l'ulteriore contestazione, la società convenuta si era rifiutata di intervenire. La corte territoriale, aveva dichiarato prescritta la domanda per tardiva denuncia dei vizi, avvenuta oltre il termine biennale di cui all'art. 1667 del Codice civile.

PRINCIPI DI DIRITTO
In proposito, l'Ord. C. Cass. civ. 10/09/2019, n. 22580 ha richiamato un orientamento consolidato, secondo il quale l'impegno dell'appaltatore ad eliminare i vizi denunciati dal committente costituisce tacito riconoscimento degli stessi ed ha l'effetto di svincolare il diritto alla garanzia del committente dai termini di decadenza e prescrizione di cui all'art. 1667 c.c., costituendo fonte di un'autonoma obbligazione che si affianca a quella preesistente legale di garanzia. Tale nuova obbligazione, che non estingue quella originaria, non è soggetta ai termini di prescrizione e decadenza stabiliti per quella di garanzia, ma all'ordinario termine di prescrizione decennale fissato per l'inadempimento contrattuale.

Inoltre, la Suprema Corte ha ribadito che rientrano nella nozione di gravi difetti dell'edificio, ai sensi dell'art. 1669 c.c., le carenze costruttive dell'opera che pregiudichino in modo apprezzabile il normale godimento, la funzionalità e/o l'abitabilità dell'immobile, come i gravi difetti riscontrati nella pavimentazione dell'immobile, nell'impianto idrico o nella presenza di infiltrazioni ed umidità.

CONCLUSIONI
La Corte di Cassazione ha dunque cassato la sentenza di appello poiché la corte territoriale non aveva fatto corretta applicazione dei suddetti principi, avendo dichiarato prescritto il diritto dei committenti, sulla base del termine di prescrizione biennale di cui all'art. 1667 c.c. (in quanto erano decorsi 4 anni dalla consegna), omettendo di accertare se vi fosse stato riconoscimento dei vizi da parte dell'appaltatore.

Inoltre, il giudice d'appello aveva errato nell'escludere che le crepe al muro, la rottura di piastrelle, il distacco del pavimento dalla parete perimetrale e la difettosa chiusura delle porte, non costituissero gravi difetti dell'appartamento, mentre, invece, essi pregiudicavano in modo grave la funzionalità dell'immobile.

 

 

Fonte: Bollettino di Legislazione Tecnica online
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La Corte di Cassazione ribadisce la differenza tra sanatoria edilizia e condono, affermando che quest’ultimo non richiede la sussistenza del requisito della doppia conformità.

Come è noto, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, il responsabile dell'abuso può ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Tale articolo impone quindi la cosiddetta "doppia conformità", che costituisce anche il presupposto per l’estinzione del reato prevista dall’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001.

Nel caso di specie il Tribunale aveva respinto l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione di alcune opere abusive oggetto di condono ex art. 39 della Legge 724/1994 - assentito con provvedimento del Comune previo parere favorevole di compatibilità paesaggistica della Soprintendenza - per il mancato accertamento della doppia conformità.

Al riguardo la Corte di Cassazione, sez. pen., 12/09/2019, n. 37659, ha specificato che la doppia conformità è requisito per la sanatoria ex art. 36, D.P.R. 380/2001, ma non del condono ai sensi dell'art. 39, L. 724/1994. Ed infatti, in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del D.P.R. 380/2001 può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36, D.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica. Viceversa, per il condono edilizio, a differenza di quanto previsto per la sanatoria edilizia di cui al suddetto art. 36, D.P.R. 380/2001, non è richiesto che l'opera abusivamente realizzata sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti al momento del rilascio del provvedimento ed a quelli vigenti al momento della sua realizzazione.

Sulla base di tale presupposto la Corte ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza del Tribunale con rinvio per un nuovo esame della questione.

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La sopraelevazione realizzata sul tetto di un condominio, anche se di ridotte dimensioni, comporta in linea di principio un aumento della volumetria e della superficie di ingombro.

FATTISPECIE
Nel caso di specie, un condominio citava in giudizio un privato innanzi il Tribunale di Napoli per sentir dichiarare l'illegittimità di due manufatti da egli realizzati sul terrazzo di copertura del fabbricato condominiale prospiciente la sua proprietà individuale, sul presupposto che essi fossero vietati sia dal regolamento condominiale che dall'art. 1127 del Codice civile e per sentir condannare il convenuto all'eliminazione di dette costruzioni.

Il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda e condannava il convenuto alla demolizione delle tettoie, ritenendole contrarie al regolamento condominiale vigente e vietate dall'art. 1127 del Codice civile, in quanto arrecanti pregiudizio all'aspetto architettonico dell'edificio, essendo parzialmente visibili dall'esterno ed in contrasto con gli elementi tipologici del fabbricato ricavato da una villa padronale del 1800. Non assumendo inoltre rilievo la circostanza che gli altri condomini avessero già alterato l'aspetto del fabbricato con la costruzione di verande o altro.

PRINCIPIO DI DIRITTO
In proposito, l’Ord. C. Cass. civ. 29/07/2019, n. 20423 ha confermato la sentenza del Tribunale (già confermata dalla Corte di Appello) e richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la sopraelevazione realizzata sul tetto di un condominio, anche se di ridotte dimensioni, comporta in linea di principio un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti come nuova costruzione; comporta inoltre il pagamento della relativa indennità non solo in caso di realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche per la trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento delle superfici e delle volumetrie indipendentemente dall'aumento dell'altezza del fabbricato.



Fonte: Bollettino di Legislazione Tecnica online
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